Sommerso, Lavoro Irregolare e Lavoro Nero in Italia
Il lavoro irregolare rappresenta l’epicentro della crisi di legalità che investe da decenni i rapporti economici nel nostro paese, minando il valore chiave della partecipazione attiva dei cittadini al lavoro, fattore decisivo in qualunque processo di sviluppo economico. La crisi Covid sta ampliando sta ampliando la platea di lavoratori irregolari che ammonta ad oltre 3 milioni di persone coinvolte : gli 800 mila occupati persi rispetto a Giugno 2020 e le crescenti schiere di lavoratori in difficoltà per ora coperti dalla cassa integrazione ma a rischio di fuoriuscita dal mercato del lavoro hanno già cominciato ad alimentare un nuovo flusso di lavoro verso l’economia sommersa.
Occupazione irregolare significa lavoro insicuro e in molti casi anche pericoloso e perdita o affievolimento di molti diritti sanciti dalla costituzione e dalle leggi : dalla equa retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, alla giornata lavorativa di durata fissata dalla legge, al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, per non parlare delle tutele in caso di malattia e infortunio. Infine col lavoro irregolare viene meno anche il diritto alla formazione ed alla crescita professionale.
Il fenomeno del lavoro irregolare ha una forte rilevanza in termini sia in termini di effetti sul Pil sommerso ovvero di occultamento di valore economico direttamente riconducibile all’utilizzo di lavoro non regolare, sia in termini di entità di persone coinvolte.
A fronte di una quantificazione dell’economia sommersa da parte dell’Istat in poco meno di 200 miliardi di euro, pari all’ 11,4% del PIL, si stima, infatti, che il lavoro irregolare, in termini di ricchezza occultata contribuisca generando circa 78 miliardi di euro, pari a circa il 40% del Pil sommerso.
Il lavoro irregolare grava sulla collettività non solo perché determina un evidente effetto di impoverimento ed esclusione sociale per le persone coinvolte, ma anche perché sottrae gettito fiscale e contributivo. Secondo il MEF nel 2016 il mancato gettito connesso all’utilizzo di forme di lavoro non regolari è stato dell’ordine di 16,5 miliardi di euro tra imposte dirette e contributi evasi, mentre il mancato gettito dell’Iva, dell’Irpef da lavoro autonomo e delle imposte sul reddito di impresa, ha comportato un ulteriore ammanco di oltre 70 miliardi di euro. Si tratta di una enorme quantità di risorse sottratta alla collettività che crea squilibri nei conti pubblici e indebiti vantaggi competitivi per chi evade alimentando la concorrenza sleale tra le imprese.
- Il lavoro irregolare, come osservato, è un fenomeno allarmante anche in ragione dell’enorme numero di persone coinvolte: in tutto si tratta di oltre 3,2 milioni di lavoratori pari al 13,1% degli occupati. In termini di unità di lavoro (Full Time Equivalent) si tratta di 3,7 milioni unità pari al 15,6% del totale delle unità di lavoro.
Il lavoro irregolare non ha caratteristiche univoche assumendo in primo luogo tante forme: dalle sotto dichiarazioni, al falso part time, al nero assoluto, agli abusi sul falso lavoro autonomo e presenta anche una notevole variabilità in termini di diffusione. Il fenomeno è presente, infatti, in tutti i settori, ma è prevalentemente radicato nell’agricoltura (18,6%), nelle costruzioni (16,6%), nel commercio, ristorazione e pubblici esercizi e altri servizi tradizionali come trasporti e logistica (16,2%) con i valori massimi nei servizi alla persona e di cura nei quali ben il 47.2% delle unità di lavoro risulta irregolare. Si tratta, inoltre, di un fenomeno segmentato territorialmente con punte massime di occupati irregolari al Sud (22,3% in Calabria e 20,1% in Campania) ed i livelli più bassi di incidenza nel Nord Est (8,9% in Veneto , 9,0% in provincia di Bolzano).
Il sommerso con il lavoro irregolare sono oggi, dunque, sempre più concentrati nei servizi non solo rispetto all’ incidenza sulle unità di lavoro di ciascun settore, ma anche in termini di volume di occupazione irregolare. Il macro aggregato dei servizi rappresenta perciò oggi oltre il 77% del lavoro nero o irregolare italiano.
L’intero aggregato del manifatturiero occupa invece poco più dell’8% del totale degli irregolari, mentre la quota rimanente (in tutto pari al 14%) è attribuibile in parti quasi uguali alle costruzioni ed all’agricoltura.
I dati ormai trentennali che indicano peraltro una incidenza in crescita del tasso di irregolarità da un lungo periodo di tempo (ma anche osservando solo gli andamenti dal 2004 il numero di occupati irregolari registra una tendenza di fondo alla continua crescita), mostrano, dunque, come il sommerso abbia saputo adattarsi ai cambiamenti dell’economia, sia in direzione di una progressiva terziarizzazione riuscendo, con ciò, a superare, anche le trasformazioni più strutturali dell’economia, come quelle introdotte dalle ultime rivoluzioni tecnologiche innescate dalla diffusione delle tecnologie di rete, dalle crisi da globalizzazione o dai grandi movimenti migratori, cavalcando, in questi ultimi anni anche la grande crisi economica come pure guadagnando spazi nelle successiva fasi di ripresa.
L’accentuata terziarizzazione che ormai caratterizza il sommerso induce, però, a considerare il sommerso stesso non tanto come una scelta obbligata (ancorché non legale) per quelle componenti produttive soprattutto manifatturiere a basso valore aggiunto, per mantenere competitività o per sopravvivere, anche a fronte di un inasprimento della concorrenza da costi alimentata e accentuata dalle forze della globalizzazione, quanto piuttosto, come una dinamica illegale, molto diffusa in ampi contesti del terziario o del settore agricolo o delle costruzioni, poco esposti alla concorrenza estera, marginali per dimensioni, assetto organizzativo, dotazione di capitale, competenze professionali, cultura imprenditoriale e scelte di business.
La questione del lavoro irregolare deve essere quindi posta in primo luogo anche su un ambito più generale che attiene a fattori socio-culturali, come l’accettazione del fenomeno dell’irregolarità e/o la riluttanza a denunciare situazioni di irregolarità diffusa e a fattori economici strutturali quali la scarsa capacità dell’economia del territorio di garantire posizioni lavorative regolari, che dipende a sua volta dalle caratteristiche di un assetto produttivo destrutturato dove una larga presenza di imprese marginali appare incapace di competere e crescere nella regolarità del lavoro e legalità.
Le cause profonde che alimentano il sommerso sono dunque le stesse che ne garantiscono anche la forte resilienza rispetto agli interventi specifici di contrasto che nel tempo sono stati prodotti.
Neanche le grandi riforme del mercato del lavoro, del resto, hanno scalfito minimamente il fenomeno: né il Pacchetto Treu nel 1997, né la Legge Biagi nel 2003, neanche la Legge Fornero nel 2012 e in ultimo neppure il Jobs Act nel 2015, osservando gli andamenti del lavoro irregolare sembrano aver prodotto risultati.
Gli andamenti più recenti del lavoro irregolare che si evincono dai dati sugli esiti ispettivi che continuano a individuare 40-50 mila lavoratori in nero ogni anno indicano come il lavoro sommerso permanga in tutta la sua forza anche, oggi all’epoca del cosiddetto decreto “dignità”. Nel 2020 il dato risulta in diminuzione ma solo perché le attività ispettive sono drasticamente calate a causa della crisi Covid .
Con questa nuova indagine nazionale Digivis intende scandagliare le nuove dinanamiche del nero ai tempid del Covid.